Illustrazione di Valeria Petrone per Senza rossetto
La nostra tradizione natalizia
Ormai la newsletter del 24 dicembre è la nostra tradizione natalizia. Un modo per ringraziarvi di averci accompagnate lungo quest’anno così fuori dal comune.
Durante questo 2020 abbiamo sperimentato la nostra prima volta come scrittrici. A marzo, infatti, è uscito Le ragazze stanno bene e lungo tutto l’anno vi abbiamo raccontato spesso cosa quel libro è significato per noi. Purtroppo la pandemia ci ha messo i bastoni tra le ruote, ma siamo felici di aver incontrato tanti di voi in presentazioni digitali e nella manciata di eventi fisici che siamo riuscite a fare, nonostante tutte le difficoltà della situazione.
Per il 2021, ovviamente, le speranze sono molte: tornare al podcast, la prima di tutte, ma non solo. Queste vacanze di Natale ci serviranno per raccogliere le forze e le idee: non temete, vi terremo aggiornati su tutti i prossimi progetti che abbiamo in mente, perché, ormai da diversi anni, anche voi siete parte della famiglia di Senza rossetto.
E proprio di famiglia parla il racconto che leggerete di seguito, di quelle persone che scegliamo di avere intorno (o che ci capita di ritrovare a fianco durante il nostro personale viaggio). Lo ha scritto un’autrice che amiamo molto e che, siamo sicure, se non conoscete, vi conquisterà. Stiamo parlando di Claudia Durastanti, tra i finalisti del Premio Strega 2019 con La Straniera. L’illustrazione, invece, è di Valeria Petrone che qualcuno di voi ricorderà essere l’ideatrice della ragazzina a cavallo di una tigre che illustra la copertina del nostro libro.
Augurandovi buona lettura e buon Natale, vi diamo appuntamento all’8 gennaio con la prima newsletter del 2021!
Nöelle
di Claudia Durastanti
Ciò che mi colpì di più quando incontrai mia sorella Marie la prima volta, fu il colore della sua pelle. Non avevo mai visto una bambina azzurra prima di allora, e ci vollero molti anni prima di incontrarne altre. Nostra madre adottava qualcuno di nuovo a cadenza abituale; passava mesi a compilare pratiche ma faceva arrivare il nuovo membro della famiglia soltanto la vigilia di Natale. Noi aspettavamo con i regali, e passavamo tutta la notte a cercare di capire se questa nuova sorella si sarebbe adattata a noi, poi ci addormentavamo sudate l’una addosso all’altra, tra bucce di mandarino e calzini smarriti. A parte essere azzurra, Marie era una ragazzina tradizionale, le piacevano le canzoni d’amore melense e all’inizio si lavava solo con l’olio di canapa. Smise di usarlo quando si iscrisse all’università, e ogni volta che ci incontriamo per la Vigilia in questa casa che è piena di nuove bambine, le dico che mi manca il suo odore. Di Rosalia mi manca invece la voce, anche se quella nuova è melodica ed eccitante e piace a tutti; pure a nostra madre che era riuscita a sentirla prima di morire, quando Rosalia ormai aveva finito la terapia ormonale. Ma non glielo direi mai che mi manca, anche se lei capirebbe: tra tutte noi, è stata sempre quella più sensibile. Provo a convincerla a tornare a vivere qui, quando ci vediamo durante le feste natalizie: lei insiste per fare la ballerina a teatro, io continuo a pensare che sarebbe un’ottima insegnante di canto o di disegno, e Natalia mi dice di lasciar perdere. Ora i loro nomi fanno rima. Penso che Rosalia lo abbia scelto per questo, loro che sono state più sorelle delle altre, forse perché erano arrivate lo stesso giorno di festa. Se ne stavano spesso per conto loro all’inizio e Rosalia – ci ha chiesto di usare questo nome anche quando ci riferiamo a lei nel passato per paura di non riconoscersi in quei ricordi, e forse non ci riusciremmo neanche noi – se la prendeva sulle spalle, perché Natalia era arrivata senza gambe. «Mozzate da una macchina. Vroom. Vroom» diceva imitando un colpo netto, facendo gesti taglienti e sgranando gli occhi; è sempre stata una circense, con il giusto ritmo per i capitomboli e i salti nel fuoco. È diventata una ricercatrice nel campo delle alghe; la sua squadra ha inventato una specie di pittura a base di piante marine capace di rigenerarsi, aiutare il ricambio dell’ossigeno e salvarci tutti, il giorno in cui sarà inevitabile il bisogno di essere salvati. Nostra madre un giorno le fece arrivare due bellissime gambe da una ditta di giocattoli che era fallita ed era diventata una ditta di protesi mediche; Natalia aveva gambe da bambola e le ricopriva sempre di glitter durante l’estate. Potevi vederla a cento metri di distanza, scintillava di fucsia o di blu. La gente si girava a guardarla. Questo mi colpiva sempre: nessuno chiedeva a Marie perché era azzurra, o a me perché avevo la conformazione di una pin-up durante la guerra anche se avevo solo dodici anni, ma quando andavamo in gelateria o al centro commerciale, le persone si fermavano e domandavano a Natalia perché se ne andava in giro con quelle gambe sbrilluccicanti. Alcune vigilie di Natale erano pericolose: capivamo subito quando una bambina venuta da chissà dove avrebbe creato dei problemi. Nostra madre diceva che anche io ero stata così, che ero arrivata tutta spappolata nel cervello come una pugilessa a fine della carriera, ma io non lo ricordo. Però non potevamo farci niente: chi arrivava restava, anche se non ci piaceva. «Non è vero che non ci piacevi» diciamo a Emily ogni santa vigilia di Natale, e ci sforziamo di non ridere o di scambiarci degli sguardi allusivi, ma lei lo sa. Era una bambina lentissima e stupida, non capiva le nostre battute e dovevamo darle per forza delle ripetizioni perché era sempre indietro con il programma. Eppure fu la prima di noi a trovare un fidanzato, e nostra madre ci costrinse ad accoglierlo con benevolenza, salvo iniziare ad urlare di rabbia come una sciamana interrotta nel bel mezzo di chissà quale rituale il giorno in cui Emily le disse che era rimasta incinta e che non voleva tenerlo. Nostra madre non era religiosa e non aveva pregiudizi, ma si era messa a capo di una tribù di ragazze indesiderate e semi-clandestine e andava in giro ovunque a formare famiglia, e se qualcuno non voleva qualcosa, lei si faceva avanti per raccoglierlo. Diceva che ci avrebbe pensato lei. Molte persone, forse i nostri genitori, le avevano dato retta. Emily no. Emily non voleva qualcosa, ne era sicura. Dopo quei litigi catastrofici sull’aborto noi imparammo a rispettarla per la prima volta, oltre a occuparci di lei mentre nostra madre si faceva venire misteriosi mal di testa per non rivolgerle la parola. Ma durò poco, arrivarono altre vigilie di Natale, la casa continuava a riempirsi di storie e di radici, di favole e di spore. La seppellimmo in giardino, a scavare la fossa fu proprio Emily mentre le altre ci guardavano dalla finestra; c’era quasi una bufera di neve. Natalia teneva i resti di nostra madre in un’urna di vetro lilla presa in un negozio di antiquariato. Era un oggetto bellissimo, prezioso e improbabile, anche se lo avevamo pagato pochissimi soldi. Era rimasto invenduto per tutti quegli anni, ma io lo avevo riconosciuto, così come mia madre un giorno aveva riconosciuto me, raccattandomi dal ring sul quale ero stata abbandonata. Era tutto illegale, quella sera sotto la tormenta, ma pure la nostra esistenza lo era. Per un certo periodo nostra madre era stata l’amante del becchino, cioè dell’uomo che un giorno l’avrebbe cremata, uno che sapeva tutto di permessi cimiteriali e di obblighi municipali e come aggirarli. Venne pure lui per la sepoltura; prendeva in giro Emily che stava con le gambe affondate nella neve ma non sentiva freddo e si sentiva una supereroina per questo. Lo avremmo invitato dentro a bere uno degli amari che preparavamo quando ci annoiavamo le sere di inverno, ma Marie era troppo scossa, e non voleva estranei attorno. Ricordo che vidi il suo bagliore azzurro dietro al vetro e sollevai una mano in segno di conforto, ma lei sparì dietro una tenda. Passai tutta la sera a cercarla, inseguendo i suoi lampi celesti nei corridoi. Rosalia intanto pensava a cosa scrivere sulla lapide. Ci pensò per anni, a dire il vero. La soluzione che ha trovato da poco e sulla quale ci siamo mostrate tutte d’accordo non è per nulla brillante, ma è quella più giusta. È un nome, Nöelle, che era il modo in cui chiamavamo nostra madre. Non il suo nome vero, ma quello che avevamo inventato per lei e che le stava bene; sapeva di Francia e di festa. L’amore più affidabile, nelle nostre vite, non passava dai documenti.
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